I sistemi “costituiti” hanno paura della complessità. Essi non la comprendono o, meglio, non riescono a com-prenderla, a farla loro, a lasciarsi trasformare. Da questo, in primo luogo, deriva l’incapacità dei sistemi “costituiti” di essere flessibili, di avere consapevolezza del fine della sostenibilità politico-strategica del mondo e dei mondi e, dunque, di abbandonare progressivamente il centro del mondo come luogo strategico del futuro già presente delle relazioni internazionali.
La de-centralizzazione, dunque, comincia dalla problematizzazione del “costituito” in un processo che definiamo “re-istituente”. E’ un lavoro lungo e paziente perché la radicalizzazione nel “costituito” porta con sé una complessità di radicalizzazioni in diversi ambiti: valoriale e identitario; culturale; politico-istituzionale; economico; giuridico.
La radicalizzazione nel “costituito” è un processo che riguarda tutti i sistemi, nessuno escluso. E’, potremmo dire, una tendenza de-generativa. Proprio perché crediamo profondamente nel valore della democrazia, pensiamo convintamente che le democrazie liberali debbano ri-appropriarsi della complessità del reale e recuperare un ruolo strategico passando dall’autocritica.
Il tema democratico si pone all’attenzione di chi voglia guardare al mondo con la lente di un realismo complesso. Soprattutto dopo la fine dei totalitarismi del ‘900, sui quali torneremo in successive analisi, le democrazie hanno avuto un andamento altalenante. Con un errore strategico fondamentale, non solo si è lasciato che le democrazie de-generassero radicalizzandosi nel “costituito”, fino all’auto-inganno di definirsi compiute, ma – addirittura – si è praticata la loro esportazione.
Se vogliamo salvare la democrazia è venuto il tempo di ricollocarla nel suo giusto alveo, non di modello costituito ma di processo incerto in re-istituzione. Oltre a essere un paradosso, la democrazia come modello compiuto, costituito, è un problema e può diventare un rischio.
La transizione dal mondo-uno al mondo-mosaico ha bisogno di democrazie-in-autocritica. E’ un dato, e le cronache ce lo segnalano abbondantemente, che le democrazie costituite facciano sempre più fatica ad “ascoltare” le istanze delle comunità umane che vivono al loro interno e si comportino – con sempre maggiore evidenza – in maniera a-dialogante e a-politica nel campo delle relazioni internazionali. Le tendenze al de-coupling, al di là delle giuste ragioni di autonomia strategica che andrebbero considerate in termini politicamente progettuali e non solo di contenimento e di difesa, esprimono un processo in corso che potremmo rappresentare come un progressivo ritiro dal globale: i sistemi costituiti, purtroppo anche le democrazie, hanno paura della complessità, del mare aperto planetario.
Problematizzare il “costituito” significa far percorrere i sistemi dalla bellezza contraddittoria della realtà, contaminandoli per farli fecondare. Solo in questo ambito, che richiede uno spirito politico in evidente latitanza, si possono creare le condizioni per un ambiente strategico adeguato al cambio di era e per evitare che nel periodo di larga e profonda trasformazione che stiamo vivendo non vincano il sospetto reciproco, l’indifferenza e la paura, come sembra accadere.
Le democrazie hanno un potenziale ruolo strategico in questa fase storica ma devono accogliere la sfida della loro re-istituzione. Quando scriviamo democrazie intendiamo le classi dirigenti che le governano ma anche le comunità umane che le abitano. Perché c’è da ri-costruire una “nuova” alleanza complessa: delle democrazie al loro interno, ri-fondando il mosaico di complessità, e delle democrazie come player globali, attori responsabili nella transizione dal mondo-uno al mondo-mosaico.