(Marco Emanuele)
Viviamo nel rischio continuo di superamento del limite del conflitto sociale nella sua de-generazione, la guerra permanente. Serve ‘realismo critico’.
Anziché domandarsi se ciò che accade in Israele sia o meno un nuovo Yom Kippur, la riflessione dovrebbe muovere sul tema del ‘movimento’, qui inteso come, passione, pulsione, tensione degli esseri umani nella storia.
Riflettiamo nel movimento della guerra permanente, lasciando agli analisti geopolitici di spiegare le ragioni di potere che stanno alla base delle cronache tragiche che viviamo. Mentre da un lato occorre approfondire geopoliticamente chi manovri e conduca azioni come il nuovo assalto a Israele, il tema è il sentimento inarrestabile che sembra condurre l’umano disagio di crescenti masse di popolazione (dentro e fuori quell’area) verso derive sempre meno controllabili dal punto di vista securitario. Una cosa è individuare, colpire e punire i responsabili di qualsivoglia strage, ben altro è diventare progressivamente consapevoli che il cambio di era sta accelerando la violenza-per-la-violenza, il male banale. D’altronde basta rileggere le pagine de ‘La banalità del male’ di Hannah Arendt per cogliere il senso di tale problema che l’uomo porta dentro di sé.
Dovremmo fare i conti con tutto questo, progressivamente problematizzando l’idea che la strategia riguardi solo le logiche di un potere che passa sopra il fattore umano. Guardando con occhio disilluso agli ultimi decenni della nostra storia globale, utilizzando la categoria del ‘realismo critico’, ben poco amata dai lineari di professione, dovremmo ammettere che ci siamo auto-ingannati nella convinzione che bastasse pronunciare parole magiche come ‘democrazia’, ‘mercato’ e ‘società aperta’ perché tutto si sistemasse in modo pressoché automatico. Invece, e la guerra permanente in Medio Oriente e altrove lo dimostra chiaramente, gli elementi strategici si nutrono di quel fattore umano che occorre ritornare ad analizzare dentro le complessità dei luoghi nei quali vive.
C’è la guerra dei poteri e tra i poteri, antica quanto l’uomo, ma il realismo critico si colloca tra il naturale conflitto che deve percorrere le società libere e la sua de-generazione, normalmente legata alla estremizzazione di dati identitari che ci appartegono, rendendoci differenti l’uno dall’altro. In sostanza, il tema è il limite del conflitto sociale prima che esso diventi, de-generando, guerra permanente (che genera un movimento raramente frenabile).
La questione è estremamente delicata e sensibile e richiede un approccio al contempo intelligente, creativo e profondo. Per questo, ogni approccio che sia semplificante o dogmatico, cercando di separare gli elementi di realtà che confliggono, fa più danni di quelli che pretenderebbe di curare. Il tema del realismo critico, continuando ad approfondirlo, è anzitutto di mediazione politica per tentare di ri-congiungere ciò che è disperso. E’ il mestiere del pensiero complesso.
(English version)
We live in the constant risk of overstepping the limit of social conflict in its de-generation, the permanent war. We need ‘critical realism’.
Instead of asking whether or not what is happening in Israel is a new Yom Kippur, reflection should move on the theme of ‘movement’, here understood as, passion, drive, tension of human beings in history.
Let us reflect in the movement of permanent war, leaving it to geopolitical analysts to explain the reasons of power behind the tragic chronicles we live. While on the one hand it is necessary to delve geopolitically into who manoeuvres and conducts actions such as the new assault on Israel, the theme is the unstoppable sentiment that seems to lead the human unease of growing masses of the population (inside and outside that area) towards drifts that are less and less controllable from a securitarian point of view. It is one thing to identify, strike and punish the perpetrators of any massacre, quite another to become progressively aware that the change of era is accelerating violence-for-violence, banal evil. On the other hand, it is enough to reread the pages of Hannah Arendt’s ‘Eichmann in Jerusalem’ to understand the meaning of this problem that man carries within himself.
We should come to terms with all this, progressively problematising the idea that strategy only concerns the logic of a power that passes over the human factor. Looking back with a disillusioned eye on the last decades of our global history, using the category of ‘critical realism’, much disliked by professional linearists, we should admit that we have been self-deceiving in the belief that all we had to do was utter magic words like ‘democracy’, ‘market’ and ‘open society’ for everything to work out almost automatically. Instead, and the permanent war in the Middle East and elsewhere clearly demonstrates this, the strategic elements are nourished by the human factor that we need to go back to analysing within the complexities of the places in which it lives.
There is the war of powers and between powers, as old as humanity, but critical realism is located between the natural conflict that must run through free societies and its de-generation, normally linked to the exaggeration of identity data that belong to us, making us different from one another. In essence, the issue is the limit of social conflict before it becomes, by de-generating, permanent war (which generates a movement that can rarely be stopped).
The issue is extremely delicate and sensitive and requires an approach that is both intelligent, creative and profound. Therefore, any approach that is simplifying or dogmatic, trying to separate the conflicting elements of reality, does more damage than it claims to cure. The theme of critical realism, as we continue to explore it, is first and foremost one of political mediation in an attempt to reunite what is dispersed. This is the nature of complex thinking.
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