(Marco Emanuele)
Più neghiamo la complessità, più quella torna prepotente.
Ovunque separiamo, non considerando il tutto-in-noi, la vita diventa ingovernabile, vittoria del superficiale-competitivo sul profondo-cooperativo, negazione di quell’ ‘umanesimo planetario’ qui evocato come unica prospettiva possibile del con-vivere.
Se tutti, a cominciare dagli intellettuali (e, a valle, i decisori), non com-prendono (fanno proprio) il mosaico inseparabile di un mondo percorso in essenza da una policrisi de-generativa e da una guerra mondiale ‘a pezzi’ (oggi le luci mediatiche sono giustamente accese su quanto accade nel Vicino Oriente ma attenzione a non spegnerle sugli altri focolai ben vivi), ciò che ci aspetta non potrà che essere problematico (per dirla con ottimismo).
Forse la cultura (qui intesa come inter-in-dipendenza di culture) e la ri-generazione del pensiero, per la formazione di nuove classi dirigenti, è ciò che serve. Dovremmo, per iniziare, distinguere tra la complessità delle tradizioni esistenziali/esperienziali delle persone e dei popoli e gli atti dei loro governi o di chi pretenderebbe farsi loro ‘portavoce’ (magari, Dio ce ne scampi e liberi, in nome del Dio stesso): mentre, da un lato (le tradizioni), c’è una meravigliosa sovrapposizione di elementi (anche diversi e divergenti) che si tengono insieme in un dialogo a-temporale (che supera i tempi vivendo nella loro profondità), dall’altro lato dovremmo dire a gran voce che si possono criticare decisioni che vorrebbero rappresentare quella complessità ben volentieri negata.
Insomma, siamo nel pieno di un circolo vizioso dal quale rischiamo di poter uscire, in maniera precaria, solo attraverso compromessi temporanei. Ma ci vuole altro, ben altro, se crediamo che sia in gioco la ‘sostenibilità sistemica’ del mondo e dei mondi. E’ su questo punto che si alza forte la voce del fastidio: nessuno ha diritto a vivere il destino all’odio.
Siamo nel pieno della crisi de-generativa della visione politica e occorre lavorare, il più possibile insieme, per re-istituirla. Serve una visione che ‘si serva’ di mediazioni e non solo di compromessi, che comprenda che la vera libertà – perché non diventi una galera – dev’essere liberazione e che la vera pace dev’essere pacificazione (e non solo, come troppo spesso accade, assenza di guerra). I focolai sempre pronti a esplodere ci dicono di ‘accordi di pace’ sbandierati come risolutivi mentre i fuochi non sono spenti. E’ tutto lì da vedere, per chi lo voglia.
Re-istituire la politica, attraverso il pensiero complesso, è il centro del nostro agire intellettuale. E, lo diciamo ai lineari-concreti di professione, nulla è più pragmatico di un pensiero che guardi oltre, nei futuri-già-presenti.
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