Per il futuro del mondo serve ‘realismo visionario’. In dialogo con Alessandro Politi (NATO Defense College Foundation)

(Marco Emanuele)

The Global Eye in dialogo con Alessandro Politi, Direttore di NATO Defense College Foundation, l’unico think tank riconosciuto dalla NATO

Puoi definire, dal punto di vista geopolitico, il mondo multipolare?

Il mondo multipolare è diverse cose insieme: un fatto che si sta verificando; un insieme di disegni politici che cambiano d’importanza a seconda degli attori che li esprimono; l’aspirazione a un mondo in cui le regole siano condivise. Questo significa che il sistema di Bretton Woods, ormai risalente al 1944, ed il connesso Washington Consensus, sono oggettivamente entrati in crisi. Ciò può essere datato al 2004, quando fallì l’invasione militare americana in Iraq. C’è stata una fase unipolare del mondo, a preminenza americana, dal 1990 fino, appunto, al 2004. Il fatto che quella guerra l’abbia persa anche Osama Bin Laden, sempre per mancato consenso tra le popolazioni locali, è una magra consolazione. Si è verificato ciò che è accaduto altre volte nella storia: una grande potenza, da sola, non riesce a gestire il mondo intero ed è così almeno dai tempi di Carlo V, quando si posero le basi del primo impero veramente globale, emerso con Filippo II.

Entrato in crisi l’unipolarismo americano, altri attori – competitori o no – si sono fatti avanti per cercare di scrivere insieme le nuove regole globali. Il documento di critica più articolato, a mio avviso, è quello russo-cinese del 4 febbraio 2022, certamente molto ideologico, ma utile per capire quali sono le intenzioni e le aspirazioni di queste due potenze. Già la nascita del G20 nel 1999 sta a significare che il G8 non bastava più, benché sorto due anni prima.

Il multipolarismo può avere diverse valenze. La prima, ai miei occhi rischiosa, è che si traduca in un processo difensivo e frammentato. In tale configurazione il mondo perderebbe i benefici della globalizzazione, ben sapendo che essi sono disuguali e che hanno imposto costi sociali molto alti, non tanto tra i Paesi ma all’interno degli stessi Paesi. La gestione securitaria delle tensioni sociali può andare bene per un certo tempo, ma poi cede.

La seconda valenza è di un multipolarismo che arriva a costituire una nuova leadership collettiva mondiale, superamento del vecchio bipolarismo, peraltro imperfetto, visto che il “terzo mondo” era sia un attore che cercava la sua strada che un oggetto di competizione tra le due superpotenze.

La terza valenza è di un multipolarismo che arrivi a riformare la globalizzazione come la conosciamo, in una direzione sostenibile. Questo è chiaramente un approccio top-down che, però, potrebbe sposarsi bene con delle aspirazioni sociali bottom-up. La sostenibilità è indispensabile perché abbiamo un unico pianeta, siamo capaci di viaggiare per non oltre di 3 secondi/luce fino alla Luna e la colonizzazione di Marte è utopia ancora per diverso tempo.

Stiamo vivendo un momento di trasformazione epocale. La confusione è massima e i rischi sono altissimi, compresi quelli di una guerra mondiale: non in Ucraina, non sulle sponde del Mediterraneo, ma nel Pacifico. È estremamente difficile discernere i semi di un futuro che non è soltanto statale. È un futuro che rischia di essere dominato da interessi privati che non hanno alcun controllo democratico e che del benessere sociale se ne importano abbastanza poco, a parte la “corporate social responsibility” che, ancora nelle migliori intenzioni, ha molti limiti. È difficile guardare al futuro perché chi tenta di percorrerlo lo sente lontano dalla propria esperienza di vita e spesso lo avverte come indesiderabile. Potrebbe essere un futuro in cui la democrazia si riduce in maniera talmente significativa da essere fittizia: il fenomeno delle democrazie ‘manipolate’ è già, purtroppo, molto presente.

Questa è la grande scacchiera e su di essa si muovono attori pubblici e privati con pesi diversi, dinamicamente cangianti e con esiti spesso difficilmente prevedibili.

Tante sono le dinamiche concomitanti che interagiscono nella turbolenta fase storica che viviamo, a cominciare dalla rivoluzione tecnologica (ma non solo …)

La rivoluzione tecnologica è una di quelle trasformazioni che andranno molto più velocemente della nostra capacità individuale e sociale, salvo un numero ristretto di persone, di adattarsi in tempo rapido. Questo influenza tutti gli aspetti della vita contemporanea, basti guardare all’evoluzione della ricerca e della produzione dell’intelligenza artificiale, verso quella che gli esperti chiamano ‘IA generale’. 

Altri aspetti sono decisivi nella grande trasformazione che stiamo vivendo. Il primo è un debito globale ormai insostenibile; abbiamo, pressocché ovunque, livelli di debito non più accettabili, inclusi gli Stati Uniti che, fino a ora, hanno risolto il problema sostanzialmente ‘scaricandolo’ sugli altri. Siamo al punto in cui questo approccio crea un punto di non ritorno, estremamente pericoloso per l’economia globale. So bene che molti economisti sostengono che c’è sempre un modo per affrontare il problema ma, prima o poi, il debito va assorbito. Questo avrà conseguenze a livello internazionale e spero che non sia uno di quei detonatori che possano innescare una guerra mondiale. E non è detto che a scatenarla siano i soliti sospetti: quando una grande democrazia si trova attanagliata dal debito in modo insolubile, alta è la tentazione di cercare vie d’uscita belliche, le quali spesso promettono molto e mantengono poco.

L’altro aspetto da tenere presente è, naturalmente, il cambiamento climatico. Credo che nessuno lo voglia più discutere, ma il cambiamento climatico significa, concretamente, che intere zone del pianeta diventano inabitabili e che generano, altro tema rilevante, migrazioni che sono altrettanto inevitabili. Finora, i Paesi del Nord del mondo hanno affrontato la questione migratoria in modo estemporaneo, di solo contenimento, ma la realtà è che il Nord del mondo è in crollo demografico. È inutile evocare teorie della ‘grande sostituzione’: se non si fanno figli, qualcuno si muoverà ad occupare terreni lasciati liberi. Questo sta già accadendo nell’Estremo Oriente russo dove c’è una pacifica colonizzazione di cinesi che occupano posti disabitati: e questo sta già accadendo anche nel nostro Paese. 

C’è da gestire un cambio di civilizzazione tra persone che arrivano e persone che restano: un cambio e anche una trasmissione di civilizzazione. È bene ricordarsi che i Romani e i Greci non sono rimasti tali perché ‘razzialmente puri’, ma perché sono riusciti a trasmettere la loro cultura al di là dei cambiamenti sociali e demografici. Questa è una sfida per la quale bisogna attrezzarsi adesso: in caso contrario, com’è accaduto tante volte nella storia, vi saranno culture che scompariranno.

In questo cambiamento dell’ecosistema, emerge la questione della sostenibilità. Noi non abbiamo più riserve serie di materie prime fondamentali, a cominciare dall’acqua potabile e dall’aria respirabile, che cominciano a scarseggiare. Anche qui, bisogna evitare di rincorrere ‘mode industriali’ che promettono soluzioni, ma a costi molto alti, e capire che c’è bisogno di un ripensamento complessivo di alcune società consumistiche: il mondo non deve tornare indietro, creando ulteriori disuguaglianze tra i più abbienti e gli altri (i primi che possono consumare quanto vogliono e i secondi che sono costretti a una ‘austerità mascherata’). Questo creerebbe delle tensioni sociali molto serie che andrebbero a detrimento anche degli abbienti. Il mondo già non può sostenere due civiltà consumistiche, immaginiamoci un totale di tre o quattro (USA, UE, Cina, India, per esempio).

I cambiamenti qui evidenziati toccano tutti gli Stati ed anche tutti gli attori economici e sociali. È quindi necessario un ripensamento complessivo ed è, prima di tutto, responsabilità degli intellettuali. Serve un pensiero nuovo che possa accompagnare le decisioni strategiche.

La guerra in Ucraina, dentro un quadro planetario di guerra mondiale ‘a pezzi’, sembra una storia senza fine. A che punto siamo e quali sviluppi vedi, anche in termini di sicurezza europea, nel medio periodo?

Guerra mondiale a pezzi è una espressione seducente di Papa Francesco, in parte anche vera. In realtà stiamo vivendo un periodo interbellico, come negli anni ’20 tra la prima e la seconda guerra mondiale. La terza guerra mondiale è già avvenuta ed è quella che noi, al Nord del mondo, chiamiamo ‘fredda’: essa, invece, è stata assai calda per il Sud del mondo, con perdite pesanti tra dittature, colpi di Stato, guerriglie, guerre guerreggiate, repressioni di massa. Rischiamo di avere una quarta guerra mondiale, con epicentro nel Pacifico. L’Ucraina si trova in una posizione molto pericolosa perché, se questo sviluppo dovesse avvenire, rischia di essere irrilevante come la Bosnia nella prima guerra mondiale.

Il conflitto ucraino ha l’opportunità di potersi arrestare nei prossimi mesi. È chiaro che c’è la volontà di Kiev di riconquistare tutti i territori perduti, ma è altrettanto chiaro che l’opzione militare finora non riesce a raggiungere le mete. Ed è oltremodo evidente che negli Stati Uniti crescono i dubbi, guardando all’interesse nazionale, di sostenere ancora per molto lo sforzo bellico ucraino. Ciò accade perché: parte dell’opinione pubblica non vede il rapporto geopolitico tra Stati Uniti e Ucraina; perché un’altra parte dell’opinione pubblica ritiene che la priorità sia la Cina e non l’Ucraina; perché una terza parte dice sì ad aiutare l’Ucraina, ma ponendo la necessità di mettere dei limiti nel superiore interesse superiore. E questi ultimi riguardano non solo le presidenziali del 2024, ma anche l’urgenza di ricostruire l’infrastruttura economica e sociale degli Stati Uniti. Questo Biden lo ha detto molto chiaramente a Zelensky durante la sua ultima visita bilaterale a Kiev. Zelensky sapeva già che nella NATO non sarebbe entrato, e non solo per la posizione statunitense. Ciò detto, le posizioni negoziali tra Russia ed Ucraina sono ancora molto distanti e sono bloccate da disposizioni o legislative o costituzionali. 

Com’è noto, Putin ha reso territorio russo ciò che territorio russo non è, e togliere questo riconoscimento unilaterale da parte russa può essere complicato e politicamente costoso. Invece, grazie al Presidente Poroshenko, abbiamo l’inserimento nella Costituzione del Paese di una clausola che obbliga l’Ucraina nella NATO: ci vogliono la maggioranza di due terzi e un referendum per eliminare tale disposizione. 

Ciò detto, ci sono possibilità di fermare il conflitto e di lasciare a entrambe le parti qualcosa che interessa e che potrebbe essere utile: in parole povere, alcuni territori de facto in attesa di una sistemazione de jure (con o senza un’altra guerra) in cambio di un alleggerimento delle sanzioni, sapendo che alcune misure sanzionatorie che annunciate come armi totali erano assai sovrastimate. C’è poi un motivo pratico, che riguarda soprattutto gli ucraini: come la Russia, che però ha ancora una popolazione di 144 milioni di persone, l’Ucraina è in un baratro demografico. Già nel 2021 c’era stato un saldo negativo di 100.000 persone nate, salito a 200.000 nel 2022 (considerando i deceduti); almeno 4 milioni di ucraini sono emigrati ed è molto difficile, in questa situazione, immaginare un quadro di ricostruzione in cui tutti tornino indietro. 

Inoltre, tra i morti ci sono moltissimi giovani in età di fare figli. L’Ucraina ha bisogno di una cessazione delle ostilità e di quello che noi italiani conosciamo molto bene: un decennio di preparazione per cercare di favorire una ripresa demografica, per sistemare la logistica dell’esercito, per aiutare a tirare fuori l’economia da un fallimento tecnico che non viene proclamato solo per ragioni di flessibilità del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale e per motivi politici. Non si possono rioccupare i territori liberati con delle culle vuote e delle bare piene.

Quali sono le conseguenze sulle politiche della difesa per l’Unione Europea e per la NATO? Entrambe hanno Stati membri pressocché sovrapponibili e insistono in larga parte sullo stesso territorio. La NATO sostiene che bisogna portare le truppe disponibili per un pronto impiego a 100.000 unità, più del doppio di quello che è teoricamente disponibile. Queste unità saranno schierate in gran parte lungo i confini comuni tra Bielorussia e Ucraina e larga parte delle truppe sarà fornita da europei. Nei fatti, si sta operando una divisione del lavoro: mentre gli americani ritengono di doversi occupare soprattutto della Cina, agli europei viene lasciata la responsabilità di una deterrenza convenzionale credibile lungo le frontiere con la Russia, con la Finlandia (circa 1.300 km di confine), la Bielorussia e l’Ucraina. È un compito gigantesco. Poi, con tempi talmente lunghi da apparire irrealistici, secondo le pianificazioni – in seconda e terza schiera – sono previste altre 400.000 unità. Parliamo, dunque, di 500.000 soldati disponibili per terra, mare e aria.

È molto chiaro che, se queste truppe europee vogliono poter svolgere una deterrenza credibile, devono superare l’equivoco di avere armamenti non standardizzati. Pur se il discorso può non essere accolto favorevolmente dalle industrie degli armamenti, come si è razionalizzato con l’acciaio e con l’agricoltura, così bisogna fare con l’acquisto di armamenti. Solo i cinque Stati europei più importanti della NATO (Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Spagna), spendevano 4,7 volte più della Russia prima della guerra; nel 2023 con tutto l’aumento delle spese belliche di Mosca, spendono comunque quasi il doppio (1,9 volte; 1,3 senza Londra): ma spendono male. Si tratta di armamenti interoperabili, ma non standardizzati. E questo è un problema: si può essere eroici come gli ucraini, ma i progressi in battaglia sono relativi; infatti, spesso gli ucraini combattono meglio con gli armamenti sovieto-russi perché sono standardizzati e perché li conoscono meglio: inoltre, gli ucraini hanno bisogno di tempo come chiunque, anche facendo miracoli in guerra, per acquisire una mentalità e capacità operative pienamente occidentali. Ciò che abbiamo detto, considerando che la NATO è una semplice alleanza politico-militare e non una struttura così complessa come l’Unione Europea, vale anche per l’esercito europeo.

Esercito europeo: già i 5.000 della Rapid Deployment Capacity, promessi da Borrell, non sono credibili senza un serio lavoro di riforma. È dal 2001 (Headline Goals) che l’Europa, in materia di pronto impiego continentale, promette e non mantiene. Dal 2004, non è stato schierato un solo battle group da 1.500 persone, nemmeno simbolicamente durante la crisi ucraina. Questa è una conseguenza seria, ma non è l’unica. Al di là di questa divisione di responsabilità, nei fatti anche se non proclamata ufficialmente, c’è il vecchio problema delle spese militari di difesa. C’è il solito discorso americano che chiede di spendere il 2% del PIL nella difesa, dal vertice di Vilnius non più come obiettivo ma base di partenza. Questo è un tema che ritorna a ogni elezione americana; soprattutto nelle file del Partito Repubblicano; essi pensano che gli europei siano – sul tema delle spese di difesa – sostanzialmente al traino di Washington. C’è una sostanziale condivisione che l’idea di Trump di ritenere la NATO obsoleta non sia poi così sbagliata. Ma nemmeno Trump, come fece a suo tempo De Gaulle e come fecero i greci per un certo periodo, si ritirò dalla Struttura Militare Integrata: per quanto improbabile, non è impossibile che un Presidente ancor più trumpiano possa compiere un passo del genere.

Tuttavia bisogna temere molto di più uno scenario in cui la NATO venga di fatto anemizzata. Già oggi il ruolo americano è decrescente, dalla guida politica alla quantità di risorse destinate. Facendo un calcolo rozzo, pur non disponendo di dati ufficiali, gli USA destinano tradizionalmente alla NATO circa l’1,4% del PIL, all’interno di un ammontare globale del 3,45% nel 2022: tutto il resto è destinato agli interessi nazionali-globali americani. Questo significa che le capitali europee, almeno quattro (Berlino, Parigi, Madrid, Roma), devono cominciare a remare nella stessa direzione. Occorre anche riformare il meccanismo europeo decisionale se non vogliamo, come i polacchi con il liberum veto (1573-1763), essere esposti a qualunque veto che blocchi qualunque decisione, magari su ingerenza esterna.

L’esempio storico polacco ci riporta alla questione dell’allargamento sulla quale bisogna essere molto pragmatici e concreti: non si può più allargare, se non c’è una riforma seria politica prima e delle regole di decisione dell’Unione Europea dopo. Già dopo il primo grande allargamento sono emerse chiaramente difficoltà dovute a vari fattori anche storici e sarà così anche per i successivi, pur capendo che non possiamo mantenere i Balcani in un infinito stato d’attesa. I sei paesi vanno piuttosto rapidamente incorporati, spingendoli energicamente a fare le riforme essenziali per avere democrazie bastevolmente funzionanti. Per l’Ucraina, al di là di facili e temo irrealizzabili promesse, c’è invece da lavorare molto seriamente in modo che sia in grado di assorbire l’acquis europeo, cosa che non può ovviamente fare in un giorno.

È chiaro che ci sono interessi politici che vogliono ridurre l’Unione Europea ad un’entità che non ha né capo né coda, ma questo è un progetto francamente liberticida, mentre invece bisogna migliorare e consolidare la qualità della solidarietà sociale. Sono obbiettivi dileggiati da intellettuali pseudoliberisti, salvo scoprire che servono seriamente anche a Build Back Better, anche in paesi come la Cina. Insomma l’allargamento non può procedere a detrimento della qualità dell’essere Europa, perché questo è il senso profondo che permette di avere all’Europa una politica estera degna di questo nome, femminista o meno che sia; un vuoto di valori è l’esatto opposto del progetto.

Senza i valori non ci può essere la difesa credibile dell’Europa, e questo va oltre l’esempio basico del patriottismo ucraino. Con buona pace di De Gaulle, l’Unione Europea non è una collezione di Stati nazionali: o si scegli di rimanere Stati nazionali, come ha fatto UK con Brexit e con esiti francamente infelici (andando ad un punto di rottura), o si continua sulla strada dell’integrazione, anche a più velocità. Sicuramente nel campo della difesa e della sicurezza ci vuole un ruolo guida di quattro grandi Stati, almeno all’inizio: con tutte le difficoltà, è l’unica strada perché l’Europa non venga schiacciata da competizioni tra nuove potenze che spesso non tengono conto del futuro del pianeta.

Non c’è solo la guerra in Ucraina, l’Europa deve anche affrontare problemi e crisi nei Balcani. Come inquadrare queste situazioni e sfide?

Questa domanda chiaramente indica le responsabilità dell’Europa che per ora si limitano ad un raggio minimale per carenze intellettuali, politiche, pratiche, pur avendo l’economia in grado di sostenerle. La naturale area di responsabilità dell’Europa va dall’Artico sino all’Equatore in uno spazio approssimativamente compreso fra il 30° meridiano Ovest ed il 75° Est, facendo conto delle sue reali capacità logistiche e delle operazioni precedenti con e senza il sostegno statunitense.

Parlando dei Balcani, possiamo dire che è una situazione che si sta lentamente risolvendo, tranne la Bosnia-Erzegovina ed il Kosovo, con temperature politiche decrescenti a patto che non perduri un’attesa perenne ed insostenibile. Se non si mantengono le promesse, spenderemo di più a mantenere il coperchio che ad integrare questi paesi.

Come sappiamo c’è in atto dal 2008 un dialogo Belgrado-Pristina, sotto l’egida dell’Unione Europea; nonostante fosse punteggiato da crisi quasi a cadenza annuale, esso aveva registrato degl’importanti progressi sino al luglio del 2022, quando è scattata l’ultima crisi nel Nord del Kosovo culminata il 24 settembre del 2023. Il Kosovo in termini di riconoscimento internazionale assomiglia a Taiwan e faremmo bene a ricordarcene, anzicché minimizzare il problema. Purtroppo si è rotto un meccanismo di litigiosa complicità fra Belgrado e le Istituzioni in Kosovo: tutto questo non farà un passo avanti, se ci sono delle “stabilocrazie” che si attivano per mantenere la questione irrisolta. A queste élite immobiliste bisognerebbe mostrare la triste fine del Libano. L’Europa ha tutte le possibilità per convincere le parti interessate nei Balcani, soprattutto Serbia e Kosovo, a negoziare e riformare seriamente, ma non deve lasciarsi distrarre da emergenze importanti ma che non sono decisive per il suo futuro immediato. L’Ucraina è una di queste emergenze: pur se importante, che però va gestita sul lungo periodo. Non si può pensare di risolvere tutto e subito.

L’esito del conflitto ucraino, che si sta profilando urgente e necessario per gli ucraini, per gli europei e per gli americani, richiede anche un negoziato con il nostro avversario: la Russia. Sottolineo avversario perché la comunità euro-atlantica non è in guerra con Mosca.

Perché il Medio Oriente, il Nagorno Karabakh e l’Africa (tra colpi di Stato e neo-colonizzazioni) sono importanti, non solo a livello regionale?

Il Medio Oriente sta attraversando l’ennesima crisi brutale e sanguinosa e, naturalmente, mi riferisco al brutale attacco del 7 ottobre di Hamas a Israele.

È una situazione che è stata impostata in modo del tutto coloniale con l’Accordo Sykes-Picot nel 1916 e con la Dichiarazione di Balfour del 1917. Da allora ad oggi, ciò che si semina, si raccoglie. La questione mediorientale affonda nella questione irrisolta dell’indipendenza dei popoli, di tutti i popoli, che comprendono l’Africa del Nord, il Levante e il Golfo che, ancora pigramente, chiamiamo Medio Oriente (entità che non esiste più, da tempo, dal punto di vista geopolitico): sono tre sotto-regioni geopolitiche che sono connesse ma nettamente distinte tra di loro. In mezzo ci sono tutti i problemi di statualità nascenti: nulla di nuovo rispetto a quello che abbiamo sperimentato noi europei a partire, almeno, dal 1300. Ma si tratta di un ‘non nuovo’ sanguinoso e molto difficile da gestire. Quella palestinese è una questione irrisolvibile con gli strumenti di forza attuali.

Sono 75 anni che la questione palestinese è stata messa come un conflitto apparentemente congelato. Abbiamo capito in molti nel mondo che la situazione non può più proseguire così; speriamo che lo capiscano anche gli elettori e le élite israeliane; speriamo che lo capiscano i Paesi amici della pace, di Israele e delle aspirazioni del popolo palestinese. Se le realtà sul terreno, perseguite caparbiamente dal 1993 dopo gli Accordi di Oslo, per eliminare la possibilità di un “due Stati, due popoli”, sono diventate irreversibili, occorre immaginare soluzioni che contemplino il pieno rispetto dei diritti umani, politici e democratici di entrambi i popoli, quello israeliano e quello palestinese. Sono certo che, a livello locale, molto sia già stato pensato e la questione non attiene solo alla volontà politica delle parti ma anche ad un’azione internazionale dedicata. Questa è una questione che ci interessa, non solo per ragioni etiche e umane, ma anche per ragioni essenziali di sicurezza. Il Levante è vicino al Canale di Suez e allo Stretto di Bab el-Mandeb che significa Oceano Indiano e, dunque, Indo-Pacifico.

In questo quadrante l’Europa ha una responsabilità e lo sottolineo da diversi anni, ben prima che ci fosse un’idea americana di Indo-Pacifico (2011): è dal 2004 che parlo di “Cindoterraneo”, di un Mediterraneo che è il terminale di merci, interessi, persone, beni che vanno dalla Cina, dall’India, dall’Africa, dal Golfo e che finiscono direttamente nel Mediterraneo. Prima facevano capo esclusivamente a Gioia Tauro, ma oggi c’è una concorrenza col Pireo che avremmo potuto evitare, avessimo saggiamente aiutato la Grecia nel bisogno.

Gli europei, se vogliono contribuire alla sicurezza generale dell’Indo-Pacifico, devono essere realisti e sapere che le loro capacità logistiche arrivano fino all’Oceano Indiano. E questo tenendo conto della volontà dell’India di essere egemone indiscussa di questo spazio oceanico. Sarà oggetto di negoziazione, non tra singoli Stati ma come europei, il mettere insieme le volontà, le capacità e la conciliazione degli interessi.

Il Nagorno Karabakh è, dal punto di vista del diritto internazionale, una questione relativamente più semplice. La regione apparteneva all’Azerbaigian, di diritto, ed è stato illegalmente occupato nel 1994. Purtroppo ha avuto una deriva ed una soluzione bellica e questo non è positivo per l’Europa: anche i conflitti congelati hanno conseguenze sulla sicurezza dello spazio europeo ed euro-atlantico. Purtroppo, gli armeni del Nagorno-Karabakh non hanno voluto scommettere su una soluzione alto-atesina, come quello che sembrava far capire il governo di Baku. Bisogna lenire le ferite di questo nuovo conflitto e fare in modo che i due Paesi riconoscano le loro frontiere, senza se e senza ma: con tutte le garanzie per le minoranze e con tutti gli accorgimenti per quelli che sono i problemi posti dal Corridoio di Lachin, che certamente non può trasformarsi in un Corridoio di Danzica. In questa parte di mondo abbiamo dei partner: paradossalmente l’Armenia è un partner della NATO, così come la Georgia e l’Azerbaijan, ma non abbiamo degli alleati da difendere, né la NATO può e vuole entrare a mediare, creando spinosi precedenti.

L’Africa è, tra i quattro geo-network politici (gli altri sono Pacifico, Indiano ed Atlantico), il più soggetto a influenze esterne: ciò avviene perché il Continente non ha una proiezione oceanica. Pur essendo bagnato da due oceani e pur avendo la propaggine mediterranea, l’Africa per necessità è molto concentrata su stessa, un grande Continente con enormi difficoltà di comunicazione interna. L’Africa è in cerca di una sua dimensione e di una sua leadership: ci sono almeno quattro o cinque grandi Paesi che avrebbero il potenziale di essere leader nel Continente. Ci sono le aspirazioni egiziane, marocchine, nigeriane, del Sud Africa e forse di qualche altro Paese. In realtà, tutti questi giganti africani sono bloccati da robusti problemi interni. L’Africa, attraverso l’Unione Africana, sta facendo un lavoro straordinario e molto difficile, partendo da evidenti condizioni di frammentazione. L’influenza e/o l’ingerenza di potenze esterne è una cosa pressocché inevitabile. 

Se il vecchio colonialismo è stato spazzato via, alcune vecchie potenze coloniali europee – e anche gli Stati Uniti – hanno cercato, con intensità diverse, di mantenere un’influenza in Africa. Siamo in una fase in cui la liquidazione dell’ordine post-neo-coloniale è molto visibile. La degradazione delle reti di influenza esterne comincia con la crisi del Rwanda. I sette colpi di Stati avvenuti negli ultimi tre anni nei Paesi saheliani e sub-sahariani sono la risposta prevedibile, e fors’anche drammaticamente fisiologica, di élite di Paesi profondamente in crisi che si appellano all’unica tecnostruttura vagamente organizzata e stabile: le forze armate. Il processo ricorda quello italiano di nascita delle Signorie, guidate da ex capitani di ventura che si stabiliscono con un potere civile. 

Mentre gli USA e la Cina hanno un pensiero strategico sull’Africa ed i russi si muovono opportunisticamente, l’Europa deve cominciare a pensare ed agire un autonomo pensiero strategico: i documenti europei sull’Africa sono sintesi burocratiche e ben poco hanno a che vedere con ciò che sarebbe necessario. La Bussola Strategica è un documento che va rivisto velocemente: non bisogna aspettare il 2025. In tutto questo c’è anche il Piano Mattei italiano che, prima o poi, dovrà essere reso pubblico e che tocca il tema del governo delle migrazioni dall’Africa.

La Bussola Strategica ed il Piano Mattei sono, in un certo senso, figli della stessa temperie politica degli accordi del 1944, tra Teheran, Potsdam e Bretton Woods. Questa Commissione Europea ha provato ad immaginare di essere geopolitica con risultati embrionali ed alterni; dal canto suo il Piano Mattei parla di un futuro dell’Europa che non può essere scindibile da quello dell’Africa. Dunque, occorre dare concretezza a queste intenzioni strategiche euro-italiane.

Infine, la crisi del multilateralismo non aiuta ad affrontare la policrisi planetaria (prima fra tutte, quella climatica) nella quale siamo immersi. Ci dobbiamo rassegnare ai “minilaterali” o possiamo lavorare per prospettive diverse?

Se il multilateralismo non è morto, certamente non gode di buona salute. L’esperienza del G7, del G8 e del G20 è positiva, a patto di non pensare che questi gruppi di Paesi riescano a dare un impulso al resto del mondo: questi fori non nascono per questo fine. Hanno l’intento di creare un terreno comune di intese larghe, ma non conclusive, non decisive, tra Paesi che condividono alcune cose. Anche i BRICS, al di là delle divisioni sostanzialmente inutili tra autocrazie e democrazie, non si propongono il fine di diventare il leader del Sud globale. Nel BRICS, già nel formato ristretto (a cinque, prima dell’allargamento) c’è un Nord e c’è un Sud: quest’ultimo è rappresentato da Sud Africa e Brasile mentre l’India fa parte, non solo geograficamente, del Nord del mondo perché non vuole fare parte del Sud globale (caso mai, vuole essere leader, dal Nord, del Sud globale). Il discorso dell’India vale, allo stesso modo, per Russia e Cina.

Le minilaterali non riescono a gestire i grandi problemi globali. L’ONU dovrebbe essere la realtà più adatta, ma anch’essa è limitata da una mancata riforma al suo interno: quella che tentò con il Segretario Generale Kofi Annan fu una riforma burocratica e non politica, impossibile senza l’impulso decisivo dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Difatti, il tentativo di bilanciare la relativa democraticità dell’Assemblea Generale con il diritto di veto di cinque soli membri mostra la corda. Tale tentativo ha fatto tutto ciò che poteva: sopravvivendo alla lunga stagione di una terza guerra mondiale che solo noi del Nord ci possiamo permettere di chiamare ‘guerra fredda’; sopravvivendo al tumulto post-bellico, diventato molto più pericoloso perché ci sono una serie di guerre, sia interne che di aggressione, scatenatesi quasi immediatamente dopo la caduta del muro di Berlino.

L’ONU non ce la fa, nonostante il lavoro delle sue agenzie, a tenere il passo con un mondo che mette in crisi anche i ben più agili, relativamente parlando, Stati nazionali. L’ONU ha cercato, in particolare attraverso il lavoro delle sue Agenzie, di contemperare risorse pubbliche e private (il caso del Covid e della Organizzazione Mondiale della Sanità è lampante); c’è, a livello delle agenzie, una considerazione dell’importanza del ruolo del privato. Il problema è che tale ruolo non ha un punto di equilibrio con le esigenze del pubblico. In aggiunta, il problema è interno agli Stati nazionali: la ricerca del “nemico esterno” non funziona in un mondo che deve trovare una nuova direzione, un nuovo equilibrio.

Una delle piste sulle quali occorrebbe lavorare con maggiore serietà è la capacità di cambiare il segno della globalizzazione. È un tema sul quale tutti, paradossalmente, sono d’accordo. Lo scrive il documento russo-cinese del 4 febbraio 2022 (venti giorni prima dell’invasione dell’Ucraina), già richiamato.

Guardando, con realismo, al documento russo-cinese, dobbiamo dire che altri Paesi, con regimi diversi dai nostri, concordano su tre principi: tutti i ‘grandi’ vogliono la globalizzazione economica (posizioni meno nette percorrono ovviamente i Paesi del Sud globale); altrettanto c’è convergenza sulla parola ‘democrazia’ mentre ciò che la differenza è la sua attuazione (nelle differenze evidenti tra la nostra idea di sistemi democratici, peraltro percorsi da alti tassi di astensionismo e di crescente separazione tra ‘demos’ e ‘kratos’, e sistemi come Russia e Cina, non possiamo trascurare che, nel 1911 per quanto riguarda Pechino e nel 1917 per quanto riguarda Mosca, partirono processi che muovevano verso una ‘democrazia sostanziale’, chiaramente percorsa – nei decenni successivi – da ciclici, e crudeli, fasi autoritarie e totalitarie); il terzo principio è la legalità internazionale, anche se a nessuno sfugge la differenza linguistica, e dunque politica, tra ‘rules based order’ e legalità internazionale. 

Pur nelle differenze, a volte divergenti, se vogliamo tirare fuori il mondo dalla situazione in cui si trova, dobbiamo partire da questi tre principi: riforma della globalizzazione; riforma della democrazia (in tutte le sue declinazioni, liberale, liberista, autoritaria); intesa sulle regole internazionali (il ‘rules based order’ è molto criticato nel Sud globale, non solo da Russia e Cina), richiamando tutti ad una condivisione di responsabilità. 

Come dare attuazione politica alla convergenza sui tre principi indicati? La sede naturale dovrebbe essere l’ONU e il processo dovrebbe moltiplicarsi ai livelli delle varie Organizzazioni regionali: tutto questo, pur essendo molto razionale, è sostanzialmente irrealizzabile perché riformare meccanismi consolidati e appesantiti è molto più complicato che crearne di nuovi. Bisognerà trovare una formula politica nuova, che includa vecchie e nuove potenze e che guardi alla necessità di regole che superino gli interessi particolari: non sarà facile fare in modo che potenze vecchie e nuove capiscano di non pensare di essere, come destino naturale, i principi del mondo. 

Una pista di riflessione, e non già una proposta, può essere la capacità del G20, con ulteriori inclusioni se necessario, di darsi un Segretariato stabile, delle Commissione di lavoro effettive ma, soprattutto, di concordare sul lavoro politico rispetto ad alcune priorità.

(riproduzione autorizzata citando la fonte)

Latest articles

Related articles