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Ri-umanizzare

(Marco Emanuele)

Gaza e Bletchley Park sono i luoghi simbolo delle ultime settimane e, per ragioni diverse ma interrelate, lo rimarranno per molto tempo. Oltre a Gaza, dovremmo considerare tutti i luoghi delle guerre ‘mediaticamente accantonate’, a cominciare dall’Ucraina.

Cresce la disumanità nel Vicino Oriente. Non sembra arrestarsi, pur tra i tentativi diplomatici in atto e dentro la continua minaccia di un allargamento del conflitto, la spirale di vendetta che vediamo e rispetto alla quale, tristemente, ci sentiamo inermi: il 7 ottobre (il barbaro attacco di Hamas che condanniamo senza alcun ‘si, ma’), 11 settembre d’Israele, ha segnato un punto di non ritorno, uno di quegli eventi che la memoria collettiva non potrà cancellare e che ha fatto tornare alla ribalta la questione della sicurezza dei popoli israeliano e palestinese e della necessità di ri-prendere i fili di culture che meritano dialogo e non il destino all’odio. Al contempo, è uscito dal profondo della terra, e della nostra consapevolezza lineare, il tema dell’antisemitismo: la caccia all’ebreo, in qualunque forma si materializzi, è ritorno del ‘peggio della storia’, pogrom in noi. Detto questo, soffiare sullo scontro di civiltà, pur essendo giusto ricordare e sottolineare il valore della nostra cultura occidentale, è azzardo molto rischioso: servono autocritica e de-radicalizzazione da parte di tutti.

Intanto, il progresso va avanti. A Bletchley Park si è preso atto che l’avanzata dell’intelligenza artificiale chiede limiti,  che non è possibile lasciar fare a una tecnologia che si mostra sia capace di aiutare l’uomo a migliorare la sua condizione esistenziale che a disumanizzarlo, a renderlo strumento, a farne macchina non pensante, un passo indietro rispetto alla sua stessa creatura. La partita dell’intelligenza artificiale è complessa: geopolitica, culturale, economica, giuridica. E, non dimentichiamolo mai, etica.

Mentre la (ogni) guerra, per sua natura, disumanizza, l’intelligenza artificiale potrebbe farlo. I ‘maestri’ di complessità che abbiamo la fortuna di conoscere (Edgar Morin, Mauro Ceruti e altri) ci insegnano che il ‘punto di svolta’ sul quale occorre lavorare è l’ ‘umanesimo planetario’, passando dalla ri-umanizzazione della modernità. E occorre farlo dentro la condizione umana, percorrendo la strada, ricca d’imprevisti e straordinariamente sfidante, del ‘chi diventiamo’.

Non sfuggirà, naturalmente, che lavorare per un ‘umanesimo planetario’ è questione che si lega, direttamente e indissolubilmente, alla formazione di nuove classi dirigenti. Nuove perché devono ri-pensare un pensiero ancora (pressoché) del tutto lineare, novecentesco, limitato e limitante. E’ tempo di cambiare via se non vogliamo che le generazioni a venire pensino a noi come a coloro che hanno lasciato una eredità insostenibile: quella del ritorno del ‘male banale’, impalpabile – ma reale – de-generazione del nostro essere-nel-mondo.

(riproduzione autorizzata citando la fonte)