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Geostrategic magazine

Visione storica e ricostruzione della speranza

Il nostro lavoro vuole essere di costruzione storica ma deve necessariamente passare attraverso la critica all’esistente.
La critica non basta, lo sappiamo. Pur se necessaria, essa deve accompagnarsi alla mediazione e alla visione. Ma c’è un problema in più: la ricostruzione della speranza.
La crescente complessità dei processi storici, e la loro interrelazione (la megacrisi de-generativa nella quale siamo immersi entra nelle nostre vite non ‘una crisi alla volta’), ci dice che è sempre più difficile comprendere il mondo e viverci dignitosamente. La guerra, intesa come conflitto non affrontato politicamente, permea ogni ambito delle nostre vite nei termini di una violenza che sta diventando bagaglio pressoché costante del viaggio quotidiano.
C’è, potremmo dire, una sorta di malattia profonda, non curabile attraverso gli strumenti della linearità e della semplificazione. C’è, in giro, un sentimento di paura mista a rassegnazione: ma, come sempre accade agli esseri umani, la cura passa anche attraverso l’esercizio della propria responsabilità.
La pandemia, paradossalmente, è il male minore rispetto ai suoi impatti sociali. Ben peggio della guerra guerreggiata, ancora più paradossalmente, sono le conseguenze che essa genera in termini di morti, feriti, sfollati, crisi di varia natura (guardando all’invasione dell’Ucraina, le crisi energetica e alimentare).
Altresì, la gravità di molte scelte strategiche compiute negli ultimi trent’anni si vedono nella crescita non più accettabile delle disuguaglianze e nella insostenibile situazione dell’ambiente e del clima.
Compito degli intellettuali e delle classi dirigenti è di alimentare la fiamma della speranza. Certo con una comunicazione positiva, d’inclusione, la speranza si alimenta soprattutto attraverso la ricostruzione della prossimità. Complessità insegna che le visioni condivise possono nascere solo in un dialogo sostanziale e informale, dal basso, nel profondo. La ricostruzione della prossimità deve passare dalla presa d’atto della profonda crisi de-generativa del senso di comunità: per questo, nella nostra visione politica, le città e i territori sono fondamentali.
I proclami morali o moraleggianti non bastano più, vengono letti come fastidiosi e pressoché inutili rispetto alla violenza dilagante. Dovremmo, invece, rivitalizzare, anche attraverso politiche adeguate, il tema della prossimità. La sicurezza non può più essere garantita solo dall’alto, attraverso leggi restrittive e controllo sociale. Tutto è importante ma la paura mista a rassegnazione è qualcosa che chiede ai territori, dentro e al di là della geopolitica, di ricostruire quegli ‘abbracci sociali’ che scaldano, ricostituendoli, i passaggi sociali raffreddati da una indifferenza montante.
Non evochiamo qui il ritorno ai ‘piccoli mondi’ ma sottolineiamo il bisogno di nuove risposte a domande antiche e a fenomeni non nuovi ma in accelerazione. Se la legge deve punire (davvero) i reati, il vero antidoto alla violenza (anche non praticata ma già presente nella discriminazione e nell’indifferenza) è ri-condividere la comunità come legame e come destino. Qui si colloca il principio di responsabilità in società molto digitalizzate ma sempre meno umane.